sábado, 6 de septiembre de 2008

Detestar a USA (italiano)

Date: Fri, 22 Oct 2004 03:11:03 -0400
Subject: Antiamericanismo
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* Fuente: 
http://www.ilfoglio.it/uploads/camillo/hatingusa.html
Storia dell'antiamericanismo

IL FOGLIO, 22 ottobre 2004 New York. Chi sostiene che le critiche europee all'Amministrazione Bush non siano espressione di antiamericanismo ma piuttosto la conseguenza della sciagurata guerra in Iraq dovrebbe procurarsi il nuovo prezioso libro di Danny e Judith Rubin, oltre che ricordarsi del 10 novembre del 2001 quando, a Torri ancora fumanti e Iraqi Freedom di là da venire, la sinistra non volle partecipare all'Usa day di Piazza del Popolo, ma scelse di marciare con i pacifisti che bruciarono bandiere israeliane e a stelle e strisce.
Il libro si intitola "Hating America - A History", odiare l'America, ed è un fenomenale racconto dell'antiamericanismo mondiale dalle origini a oggi che fa il paio con il libro "Our Oldest Enemy", di cui il Foglio ha scritto ieri e che racconta la bicentenaria inimicizia della Francia nei confronti degli Stati Uniti. Anche qui va ricordato a chi ripete che dopo l'11 settembre eravamo "tutti americani", come da editoriale del direttore di Le Monde, che non è affatto vero che Le Monde fosse diventato "americano". Il titolo del 12 settembre era davvero quello, ma dentro c'era anche altro. Dopo aver condannato l'attacco, Jean-Marie Colombani si preoccupava del rischio che gli Stati Uniti potessero trasformare "il fondamentalismo islamico" in un "nuovo nemico", sosteneva che l'11 settembre era stato causato dal dominio mondiale "senza contropotere" dell'America, metteva in dubbio che l'autore potesse essere Osama ("se Bin Laden, come le autorità americane sembrano pensare, è davvero quello che ha ordinato gli attacchi"), ricordava, ma ricordava male, che Osama "in realtà è stato addestrato dalla Cia" e concludeva: "Non potrebbe, quindi, essere stata l'America stessa a creare questo demone?". Siamo tutti americani? No, siete sempre stati antiamericani, come racconta dettagliatamente "Our oldest enemy". Nel 1996 François Mitterrand diceva: "Siamo in guerra con l'America, una guerra permanente, una guerra senza morti. Sono difficili gli americani, sono voraci. Voglio un potere indiviso su tutto il mondo".
Ma è il libro di Barry e Judith Rubin a mettere nel contesto storico l'antiamericanismo di oggi. Il sentimento antiamericano ha avuto cinque fasi. La prima è cominciata nel diciottesimo secolo, quando l'America era un piccolo posto sperduto e poco conosciuto. La critica degli intellettuali allora era senza speranza: quello è un paese dove è impossibile pensare di poter creare una civiltà, date le condizioni ambientali. La seconda fase dell'antiamericanismo (dal 1800 al 1880) era centrata sul "fallimento" della società americana, rovinata dalla democrazia, dall'uguaglianza e da altri pericolosi esperimenti. La terza fase (fino al 1930) non poteva più descrivere il fallimento, visto che la società americana cresceva impetuosamente. Così nacque la tesi, ben apprezzata in ambienti fasci-nazi-comunisti, del modello cattivo, populista, di massa, che minacciava di peggiorare la vita del resto del mondo. La quarta fase (dalla II guerra mondiale a quella fredda) denunciava le mire imperialiste degli Stati Uniti. Nell'ultima, quella attuale, quei timori si sono realizzati.

"Molto di moda tra gli intellettuali"
I due coniugi Rubin condiscono questa storia dell'antiamericanismo con frasi, citazioni, libri, discorsi di intellettuali, politici e bella gente del Vecchio continente (ma ovviamente c'è anche un lungo capitolo sul medio oriente). Il primo antiamericanismo è stato di tipo razzista. Biologi e naturalisti di fama come il francese, ça va sans dire, George-Louis Leclerc, conte di Buffon, sostenevano nel 1749 che l'America sarebbe rimasta per sempre arretrata perché le condizioni ambientali difficili incidevano sulla specie umana al punto da rendere impossibile la civilizzazione. Buffon, che non andò mai in America, sosteneva in testi apprezzatissimi che gli animali americani erano più piccoli di quelli europei e che l'indiano nativo d'America "ha organi di generazione piccoli, non ha capelli ne barba né passione per la propria femmina. E' anche più timido, più codardo. Non ha vivacità né attività mentale". E, infine, concludeva così il suo trattato: "Il loro cuore è di ghiaccio, la loro società fredda, il loro impero crudele". Charles Darwin sosteneva che Buffon avesse ragione, al punto da pensare che le prove fossili di una presenza in passato di grandi animali confermassero la "perdita del potere", l'evoluzione in senso contrario dell'America. 
Per Médéric de Saint-Méry (1790) le donne americane avevano il seno piccolo e perdevano precocemente la loro bellezza. L'Abbé Guillame Raynal, un filosofo gesuita, nel 1770 scriveva che la conquista dell'America aveva portato solo morte, malattie, schiavitù e visto che l'America era figlia di quel male imperialista ci si doveva preparare al peggio. Nel 1775 Immanuel Kant scriveva che gli americani erano "pigri, senza passione, incapaci di parlare", "una sub razza non ancora propriamente formata e mezza degenerata", "gente incapace di qualsiasi cultura, in realtà più bassa di quella dei negri". Così anche Hegel. Politicamente i radicali e i romantici giudicavano la rivoluzione americana noiosa, blanda, borghese, inefficace, poco teorica per niente utopista. Meglio le decapitazioni della rivoluzione francese. Nel 1830 Stendhal diceva che la democrazia americana era banale perché soggetta alla tirannia dell'opinione di una società controllata da masse non intellettuali. Sigmund Freud, nel 1909, accusò la cucina americana di avergli rovinato lo stomaco e sulla società statunitense disse: "L'America è un errore, un gigantesco errore". Per George Duhamel (1930) l'America "è la pancia del mostro" e "l'abisso della perfetta falsità". I marxisti sostenevano che l'America fosse razzista, mentre per i fascisti era fondata sul mescolamento della razza. Le parole più sagge sono dello scrittore Paul Morand: "Detestare l'America è molto di moda tra gli intellettuali".
Christian Rocca

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