Sat, 11 Sep 2004 07:33:18 -0400
Subject: Tre anni dopo, il vero neocon è George W. Bush
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* Fuente:
http://www.ilfoglio.it/uploads/camillo/treannidopo.html
New York. Tre anni fa era l'undici settembre, il giorno in cui l'America fu attaccata da quattro gruppi di terroristi islamici. Morirono più di tremila persone tra New York e Washington e il mondo da allora è cambiato. L'America e i suoi alleati hanno risposto all'attacco inseguendo i terroristi e destituendo due regimi in medio oriente.
Gli islamisti hanno continuato a fare stragi in nome di Allah, uccidendo infedeli e soprattutto musulmani. La battaglia continua ogni giorno in Iraq, in Afghanistan, in Pakistan, nel Caucaso ed è stata estesa anche alla Spagna, alla Turchia, all'Indonesia, all'Australia, al Marocco e all'Arabia Saudita. Anche l'Italia ha avuto i suoi caduti, sia soldati sia pacifisti. Nel mondo islamico si comincia a parlare di libertà, a discutere di politica, si stampano giornali, si avviano timide riforme e a Kabul e a Baghdad si terranno le prime elezioni, nonostante la minaccia degli islamisti wahabiti e l'influenza di Iran, Siria e Arabia Saudita. La Libia ha abbandonato i piani nucleari, gli ayatollah iraniani li hanno accelerati ma sono costretti ad affrontare un'opposizione interna.
Tutto questo è successo da quel giorno del 2001, ed è tanto, ma soltanto metà dell'opinione pubblica occidentale legge questi fatti come i diversi fronti di una guerra mondiale, come un attacco scatenato da islamisti e regimi estremisti contro infedeli e apostati. L'altra metà, che è prevalente in Europa, non crede che si tratti di un conflitto epocale, di un impegno generazionale né di una terza o quarta guerra mondiale, a seconda se si conti o no la Guerra fredda, ma piuttosto di un semplice attacco terroristico di un gruppo di fanatici e di pazzi che, magari con qualche ragione, hanno colpito i padroni del mondo, giudicandoli responsabili delle proprie miserie. Secondo questa visione minimalista, i terroristi non si combattono con la guerra, né imponendo la democrazia, ma con i tradizionali strumenti di polizia internazionale, con i tribunali, la cooperazione e il dialogo. E, in effetti, se non si leggono i proclami di al Qaida, se non si ascoltano le prediche nelle moschee wahabite, se si dimentica la lunga serie di stragi, se si vuole sempre trovare una spiegazione razionale ad atti irrazionalmente omicidi, insomma se tutto ciò non è percepito come una vera guerra è comprensibile lo stupore e l'avversione nei confronti della strategia di George W. Bush.
Un sorta di nuovo maccartismo
Bush ha individuato la presenza di un nemico e ha capito che bisogna combatterlo. I minimalisti, non percependolo, si sono interrogati su quale fosse il motivo reale della risposta militare: il petrolio, gli affari della Halliburton, il solito imperialismo americano. I più sofisticati hanno trovato la giustificazione del plagio. La politica estera statunitense sarebbe stata dirottata da una setta di ebrei americani fedeli a Israele, seguaci di Leo Strauss e con strane visioni del mondo: i neoconservatori. Contro di loro si è scatenata, di qua e di là dell'Oceano, una caccia alle streghe che ha un precedente nel maccartismo degli anni 50. Sono diventati i cattivi per antonomasia, ideologi, affaristi, avidi, spioni, intrallazzatori. Loro, di tanto in tanto, non hanno mancato di fornire argomenti ai teorici del complotto, ma leggendo i giornali di questi tre anni è emersa una grottesca rappresentazione della realtà: si è pensato e scritto che se non ci fossero stati quei dieci o venti neocon più o meno vicini al presidente non ci sarebbe stata alcuna campagna irachena, i terroristi si sarebbero quietati e il mondo sarebbe rimasto in pace. Ma sono stati i neocon a "dirottare" la politica estera Usa? E' davvero la loro guerra, questa? La cosa che i minimalisti non hanno capito è che il vero neocon è Bush.
(continua a pagina quattro)
Uno degli effetti collaterali dell'11 settembre è stata la ricomparsa nel dibattito pubblico della parola "neoconservatore". I neocon, in origine, erano un gruppo di intellettuali newyorchesi che negli anni Settanta fece una battaglia politica e culturale dentro la sinistra per evitare che diventasse antagonista e illiberale. Negli anni Ottanta seguirono Ronald Reagan e, nel 1996, uno dei fondatori del movimento, Norman Podhoretz, scrisse su Commentary che il neoconservatorismo era finito perché ormai pienamente assorbito dal partito repubblicano rivoluzionato da Reagan. Per qualche anno non se ne parlò più, fino all'11 settembre 2001.
George W. Bush era tutt'altro che neocon. Il Weekly Standard, rivista di Bill Kristol, appoggiava John McCain e a Bush preferiva addirittura Colin Powell. Bush fu eletto con un programma isolazionista, voleva ritirare gran parte delle truppe americane dispiegate nel mondo e promuovere una politica estera "humble", "umile", rispetto all'interventismo democratico di Bill Clinton in Bosnia, Kosovo e Haiti. L'America di Bush, insomma, aveva promesso di farsi i fatti suoi e di abdicare al ruolo di poliziotto del mondo, a meno che non fossero direttamente in pericolo i propri interessi.
Poi è arrivato l'11 settembre. La politica umile e non interventista non era più un'opzione possibile, la reazione alle minacce non poteva più essere la stessa. Serviva un'idea, una strategia complessiva e di lungo termine che non fosse semplicemente quella di mostrarsi preoccupati del problema e poi sparacchiare qualche missile qua e là come aveva fatto il predecessore Clinton.
Bush poteva contare su una formidabile squadra di consiglieri di politica estera, veterani della prima guerra del Golfo, come Dick Cheney e Colin Powell, esperti di mondo sovietico, come Condoleezza Rice, sostenitori di riforme democratiche in medio oriente, come Paul Wolfowitz, reaganiani, come Richard Perle, e realisti di ferro, come Donald Rumsfeld. E poi aveva l'aiutino del padre, il primo presidente Bush.
A loro, dopo l'11 settembre, Bush jr. chiese due cose: chi fossero questi che avevano buttato giù le torri e che cosa bisognasse fare per sconfiggerli. Una risposta arrivò dal più grande esperto americano di cose islamiche, Bernard Lewis, e dai neoconservatori guidati da Wolfowitz e Perle: i terroristi sono militanti fondamentalisti aiutati da alcuni regimi mediorientali; ci vogliono uccidere non per quello che facciamo ma per quello che siamo; non ci si può più girare dall'altra parte, dissero al presidente, l'unica via di uscita è quella di liberare il medio oriente da quei tiranni che sviluppano armi di distruzione di massa, sostengono il terrorismo e minacciano il mondo libero.
Un'altra risposta, più cauta e non strategica, arrivò dal padre e dai suoi ex consiglieri Brent Scowcroft e Lawrence S. Eagleburger. Anche Henry Kissinger aveva dei dubbi, così come James Baker. Molti altri conservatori come Chuck Hagel e Pat Buchanan avrebbero preferito che l'America non inseguisse ambiziosi progetti oltreoceano. Powell gli disse che quando si rompe un paese, si eredita la responsabilità di ricostruirlo. Sull'attacco all'Afghanistan tutti erano d'accordo, ma Bush individuò l'obiettivo strategico già poche ore dopo l'11 settembre, quando parlò di asse del male, cioè di regimi arabi o islamici che sostengono, aiutano e finanziano il terrorismo. Nessuno ci fece caso, quelle parole sembravano le arroganti sparate di un cowboy texano. Invece erano il nucleo del documento sulla strategia di sicurezza nazionale presentato nel settembre 2002. Tutti si accorsero che Bush aveva una sua dottrina fondata sul cambio di regime e sul diritto al primo colpo, cioè alla guerra preventiva, nei confronti degli Stati dell'asse del male che sostengono o condividono lo stesso progetto politico dei terroristi. I neocon sono d'accordo e assistono al balletto quotidiano su quanto siano stati influenti e su come siano stati finalmente fatti fuori. Tanto c'è Bush.
Christian Rocca
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