jueves, 14 de agosto de 2008

Afghanistan 2004

Il Foglio Quotidiano
sabato 11 settembre 2004
A che punto è la guerra
E’ saggio domandarsi se stiamo perdendo, come fece Rumsfeld

A ottobre l’Afghanistan, un tempo la centrale da cui partirono gli ordini d’attacco alle due Torri, voterà per la prima volta nella sua storia. Sarà un po’ una lotteria o un gioco surreale tra diciannove candidati, tanto è vero che i fieri afghani si sono procurati schede elettorali in eccesso di qualche centinaio di migliaia. Sarà anche una lotteria sanguinosa, perché la stabilizzazione di un paese che ha vissuto secoli di anarchia, di frantumazione etnica, linguistica e religiosa, di guerre e avventure coloniali e post coloniali e droghe forti al posto del pane quotidiano, si scontra con la realtà della guerra occidentale scatenata all’indomani dell’11 settembre. E’ una guerra a bassa intensità, con bombe appariscenti e intelligenti che annichiliscono il nemico solo quando lo trovano, che hanno effetti collaterali (è il freddo termine tecnico che designa le stragi non volute di civili) talvolta tragici, ma è anche una guerra a risparmio di energie sul terreno, incapace di portare a un controllo del territorio e alla formazione di uno Stato dotato del monopolio della forza. I Talebani sono stati sgominati come base armata e ideologica dello Stato islamico, e cacciati da Kabul, ma la loro ritirata strategica, consentita dalla guerra debole e rapida, è finita nella fatale riorganizzazione del fronte di guerriglia islamista. Si è stabilito un regime di condominio con i signori della guerra tribale, e Hamid Kharzai, il nostro figlio di puttana a Kabul, si prova a emergere in condizioni di sospensione politica, né guerra né pace, come l’unificatore di una nazione e il costruttore di uno Stato moderno e tollerante tra quelle montagne dell’Asia centrale circondate da stragisti islamo-ceceni di bambini e da mullah iraniani che cercano di farsi l’atomica puntando sulla divisione tra europei e americani, con il bel contorno del Pakistan diviso tra una carestosa fedeltà di Pervez Musharraf all’occidente e le mene alqaidiste di una parte dei servizi segreti. Vaste programme, quello Kharzai, ma ammirevole e senza alternative.
Il fronte russo è nello stato in cui è, come dimostra la settimana che ha portato mezzo migliaio di morti, attentati nel centro di Mosca, due aerei passeggeri abbattuti, il massacro di Beslan (e questi non sono effetti collaterali tragici, sono il succo e la fiduciosa e gioiosa sostanza volontaria della guerra santa islamista contro gli infedeli). Putin ha provato a evitare la carneficina, non ha fatto alcun blitz come hanno scritto mentendo per la gola ideologica quei disgraziati fanatici dell’Unità e molti altri corbellatori. Tutte le testimonianze, anche della famosa stampa vip e liberal, dicono che i soldati russi sono stati colti impreparati da un incidene culminato nella fucilazione nella schiena di bambini in fuga, che ha determinato l’intervento a loro difesa. Il blitz lo hanno fatto i protetti ideologici di Padellaro e M.me Verdurin, gli agenti del “terrorismo delle vittime” (come dice Jean Daniel, di cui ci occupiamo in prima pagina). E se non credete al vostro autorevole New York Times, titolisti disgraziati dell’Unità e di molti altri giornali, credete almeno al racconto dei bambini sopravvissuti al primo giorno di scuola dell’era jihadista e delle loro maestre, e chiedete scusa ai lettori per i vostri riflessi automatici infingardi e per le vostre chiacchiere. Sta di fatto che, al contrario di George Bush e di Ariel Sharon, due che alla guerra rispondono difendendosi e difendendoci, il presidente russo, che è alla guida di una democrazia improvvisata dopo settant’anni di comunismo sovietico, non ha un credibile piano politico per uscire dal pantano ceceno in cui la Russia ha rinnovato la sua tradizione terribilista nella lotta per preservare la fragile unità dello Stato, da Ivan passando per Stalin e arrivando a Vladimir. Glielo dice anche il Wall Street Journal, e noi a ruota. E’ vero che bisogna pur incominciare da qualche parte, e che se una democrazia anche molto ruspante ha un senso è perché rompe la continuità autoritaria della storia che la precede, ma bisogna sempre tenere conto del fatto che è come chiedere al ministro dell’industria italiano di risolvere la questione meridionale entro la legislatura o a Kharzai di trattare le sue regioni come la Confederazione elvetica tratta i cantoni. Si può tutto, come si vede dalla lunga tregua in Irlanda ottenuta alcuni anni fa dopo decenni di repressioni e insurrezioni sanguinose nel cuore della civile Europa. Ma ci vuole parecchia pazienza, e niente malafede. Due doti che mancano ai critici ideologici di Putin. Il presidente russo, già cocco e compagnuccio di Chirac nelle mene che portarono al veto all’Onu, il veto petrolifero, già beniamino dei pacifisti antiamericani, che ora gli si rivoltano contro ingrati, ha aderito alla guerra preventiva al terrorismo islamista. Un passo avanti, che sarebbe da festeggiare se la politica russa fosse sotto il controllo del Congresso e della libera scelta dei cittadini come succede in America, sebbene l’America sia stata derubricata a non-democrazia dagli ideologi di Micromega.
Sul fronte più importante di tutti, quello di Israele, bisogna dire che Arafat è a pezzi, e che nella decomposizione del suo potere tribale laico si riflette la disperata tragedia dei palestinesi, che meriterebbero una classe dirigente capace di trattare con Israele per avere l’indipendenza nella sicurezza, perché con gli israeliani, se non si ammazzano gli ebrei negli autobus, si è visto negli anni 90 che si può trattare. Sharon ha raccolto i cocci del processo di pace distrutto da Arafat, nel bel mezzo dell’intifada suicida e islamizzata, con la più vasta guerra islamista alle porte dell’occidente, come poteva e, secondo noi, doveva. Con un duro e tragico lavoro, che gli vale la diminuzione del novanta per cento degli attentati contro i civili israeliani (anche qui, non sono effetti collaterali, sono stragi desiderate in nome del paradiso e alimentate, in secondo grado, dalla disperazione sociale) e gli varrà l’ammirazione degli storici. Incassa, naturalmente, l’odio feroce delle persone compassionevoli, dell’egoismo pacifista di ogni latitudine, e noi che non vogliamo vedere gli ebrei buttati a mare siamo felici di condividerne con lui una sia pur piccolissima parte. Ma Sharon ha un piano politico, il ritiro unilaterale da Gaza degli insediamenti, intanto, e la costruzione di un muro che sia lo scudo e il simbolo di una sicurezza possibile nonostante tutto. E il ritiro degli insediamenti gli vale anche l’odio biblico di una parte dei suoi, che Dio e lo Shin Bet gli risparmino la sorte del grande Yitzak Rabin. E che tenga sotto sorveglianza l’atomica iraniana, meglio lui che l’Agenzia dell’Onu.
Anche in Iraq c’è un governo diretto da un nostro figlio di puttana, Iyyad Allawi, mentre Saddam è in galera. Vige una legge amministrativa transitoria, c’è il bollo dell’Onu, che era fuggita dopo il bombardamento della sua sede ma è tornata e si è un po’ data da fare, ci sono elezioni programmate per il prossimo gennaio. Ma anche lì la guerra è stata rapida e per quanto possibile “umanitaria”, centocinquantamila soldati per un paese enorme e popoloso e diviso in almeno quattro-cinque confessioni ed etnie bollenti evidentemente erano insufficienti, le operazioni militari di una coalizione costretta sulla difensiva dal tradimento di mezza Europa e di mezzo occidente sono state improntate alla risibile ricerca della conquista dei cuori e delle menti del paese sconfitto, che non ha mai avuto la sensazione di quel che significhi essere nazione vinta. Anche lì c’è stata la ritirata strategica dei baathisti, protetti dall’amica Siria e confinante, con gli sciiti è difficile intendersi, sia perché Bush padre, quando i neoconservatori scrivevano articoli e non influivano sulla politica estera, li lasciò massacrare da Saddam insieme con i curdi, sia perché una parte degli sciiti non è così contemplativa come il vecchio Sistani, e Dio lo mantenga contemplativo anche dopo elezioni che presumibilmente vincerà, e poi sono in azione congiunta gli agenti degli ayatollah iraniani, gli emissari binladenisti di al Zarqawi e qualche disinvolto servizio segreto della vecchia cricca franco-russo-saddamita (nessuno ce lo toglierà di mente, anzi, ce lo ha ricordato Chirac quando ha ottenuto la solidarietà terrorista per la liberazione dei due giornalisti francesi, che speriamo siano al più presto liberi con le due Simone, un po’ meno protette da un governo che ha chiesto, ma pensa quanto è cattivo Berlusconi, di tagliare i finanziamenti europei ad Hamas). Il risultato di tutto questo è che Fallujah e Samarra sono nelle mani di si sa chi, e gli eserciti privati del bandito al Sadr sono incerti se continuare a sparare o riciclarsi nel futuro governo iracheno. Intanto sono stati ammazzati più soldati americani dal passaggio dei poteri ad Allawi ad oggi (148) che nella guerra del marzo-aprile 2003 (138).
Stiamo perdendo, come domandò Rumsfeld ai suoi qualche mese fa? No. Stiamo combattendo. Bene e con coraggio, ma con l’idea che il fronte principale è quello poroso e infido dell’opinione pubblica occidentale e dei suoi sondaggi. Per questo bisogna che vinca Bush, e bisogna rispondere a tono anche ai pundit sciagurati che vogliono legare le mani all’occidente, sconfiggere Bush, poi convincere eventualmente Kerry a diventare francese, e che ci ripetono, come fosse una verità logica o politica, quanto costi fare la guerra, perché il nemico terrorista e islamista risponde. Quando comandavano loro, la situazione era rovesciata. Il nemico attaccava, e noi rispondevamo con l’aspirina del dialogo o trattando il terrorismo jihadista e islamista come una qualunque organizzazione criminale. E fu l’11 settembre. Mai più.

(11/09/2004)

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